I social non sono solo un potente strumento di marketing e comunicazione: Sono, come dimostrano molti casi di cronaca drammatici, un potente strumento.
Anzi, i social sono l’arte della guerra. Tu sbagli, io ho ragione. Tu sei il male, io il bene. E più questo meccanismo si inasprisce, più aumentano il traffico, i like, le condivisioni.
Il soggetto criticabile – che sia l’omofobo, il truffatore o il maschilista – diventa nemico da annientare, perché, annientando, io cresco, vengo premiato dall’algoritmo. È un ricatto a cui tutti cediamo, prima o poi, perché tutti vogliamo sentirci amati, presi in considerazione, importanti. Ma così la nostra umanità, o quel che ne resta, è polverizzata. Si sgretolano i presupposti di ogni rispecchiamento, sospensione del giudizio, di ogni possibile senso di comunità.
L’unica soluzione passa, credo, per una continua e severa auto disciplina.
Rinuncio a questa botta di adrenalina, a questo senso di centralità, al fremito della micro o macro celebrità. Non sono disposto a cedere, mi privo del premio in palio, prendo una fetta di torta più piccola, ma senza veleno.
In un sistema fatto per sfigurarci tocca (anche) alla comunicazione pubblicitaria portare la misericordia dell’educazione. Alzare lo sguardo, allargare il respiro, coltivare una forza più grande di quella di cui sentiamo, ormai, di doverci accontentare.
E così è stato, è, e sarà, per Timmagine.